La Scrittura dell'Assenza
di Andrea Calzolari e Maria Rosa Torlasco
Anche la Bibbia, un’imitazione? O non piuttosto una copiatura, una pura e semplice trascrizione? Fedele a un sogno, continuando nel solco che risale alla mostra De imitatione... dal 1977 (1991) - vi si poteva leggere, a inchiostro su carta, il manoscritto de Il nome della rosa - e serpeggia più tardi (1991-1993) nell’avventura delle Mille e una notte, penna a sfera su lenzuolo, per consistere ora nei mattoni di questa chiesa, Fallini ha lungamente ripetuto lo stesso atto ingrato, di una scrupolosa trascrizione. Cambiavano i testi e i materiali, insisteva immutata nel segno paziente, a scandire gli anni, la mano. E tuttavia anche la scrittura della Bibbia non è più, in realtà, la stessa del Nome della rosa e delle Mille e una notte. Rimangono riconoscibili, è beninteso, i caratteri di cui l’occhio ha fatto esperienza, ma la mano ne ha fornito soltanto i modelli, una serie di accurati campioni per ogni lettera, che poi il computer ha organizzato, composto in sequenze di parole compiute, di frasi, fino a riprodurre l’intera compagine del Vecchio e del Nuovo Testamento , che risplende ai fedeli in quest’oro sul fondo blu delle 231 formelle.
E’ proprio questa scrittura, che non è di mano di Fallini, anche se i caratteri che porta sono tutti di mano sua, a sollecitare l’indagine. Si direbbe una sfida. E non tanto nel misurarsi con la Sacra Scrittura - quale sfida è imputabile a una trascrizione? - quanto nel prodursi come scrittura denegata, virtuale, che può persino ignorare sé stessa, e dunque il testo che scrive. Fallini potrebbe non aver mai letto la Bibbia: è lo scanner che ha letto - si fa per dire - il testo; il computer lo ha memorizzato e poi, docile ai comandi impartiti dal programmatore Giorgio Annone, lo ha riprodotto, sostituendo ai caratteri a stampa i campioni di grafemi (un certo numero per ogni lettera, che si succedono, si suppone, ricorsivamente) forniti in anticipo da Fallini. Sicché questa risulta una trascrizione senza lettura, perché nemmeno il computer capisce il senso dei caratteri che rileva e memorizza. Per tale inaudita assenza viene fatto di chiedersi, come si è detto all’inizio, se la Bibbia della SS. Annunziata di Alessandria non sia piuttosto un’imitazione. E, ancora, se a Fallini non sia riuscita, grazie all’ausilio dell’elettronica, l’operazione di cui parla Lévi-Strauss , quando racconta (nei Tristi tropici) di un capo Nambikwara che traccia linee sinuose e contorte sulla carta per fingere, agli occhi degli altri indiani, di saper scrivere e leggere come l’uomo bianco (del resto, càpita spesso di vedere dei bambini ancora analfabeti imitare allo stesso modo la scrittura degli adulti). Potenzialmente incapace di leggere, Fallini sarebbe stato però capace di trascrivere, e non per finta, come negli indecifrabili e ingenui scarabocchi del capo indiano: perché chiunque è in grado di leggere il testo iscritto sulle formelle e di comprenderne perfettamente il senso. Anche se riesce difficile immaginare il caso di fedeli che si dispongano a una lettura sistematica della Bibbia, percorrendo passo passo con lo sguardo l’intera fascia delle formelle lungo la parete della chiesa, l’importante è che ciò resti di diritto possibile e che, comunque - come è presumibile che avvenga di fatto -, chiunque getti uno sguardo sulle formelle, possa ritrovare, integro, il senso di un frammento della parola ispirata da Dio. E’ questo - per aprire una parentesi su un altro aspetto della questione - ciò che trascende il pur straordinario impatto iconico dell’operazione. Il baluginìo dell’oro sul fondo blu che stacca, a sua volta, sulla nuda severità delle pareti brune, è l’unico elemento decorativo, e cromaticarnente forte, nella struttura archittetonica progettata da Roberto Carpani, Giulio Masoni e Armanda Tasso, un’architettura sobria che privilegia materiali semplici (come il legno e i mattoni a vista), perché si sa e si vuole capace di puntare tutto sulla scansione e sulla dinamica dei volumi: e il risultato, indubbiamente felice, è che l’opera di Fallini contribuisce all’armonia dell’edificio tanto quanto l’edificio potenzia l’efficacia di questa fascia blu che corre lungo le pareti. Ma tutto questo non deve sollecitare la stupita ammirazione dei turisti di fronte alla suprema eleganza decorativa delle scritte istoriate, per esempio, nell’Alhambra di Granada: non si può dimenticare, infatti, che nella scrittura di Fallini (come del resto in quella di Granada, per chiunque conosca l’arabo) il messaggio del testo, il suo significato, è effettivamente presente e non è affatto cancellato dallo splendore dei significanti. Questa è e resta la Sacra Scrittura.
Ma questa è e resta anche un’imitazione: nella Bibbia, anzi, Fallini è rimasto fedele al suo tema più che nel Nome della rosa e nelle Mille e una notte. E lo si può dimostrare anche a posteriori: se Fallini avesse davvero trascritto manualmente il testo, la copia che ne sarebbe risultata sarebbe stata certamerne diversa da questa; e non già perché il ductus cambia di volta in volta, bensì, perché il ductus stesso qui manca da sempre; l’avrà letto, semmai, e programmato per mostrarlo riflesso, lo specchio-memoria mistificante del computer. Dunque quel che ci sta davanti non è un manoscritto di Fallini, ma la sua imitazione, vale a dire l’imitazione di un modello, o archetipo, puramente mentale e, per dir così, in potenza: ma non astratto, dato che, per l’appunto, permane il residuo concreto dei singoli caratteri, dei campioni di grafemi effettivamente tracciati a mano da Fallini. Una volta appurata tale definizione (imitazione di un manoscritto, e non manoscritto reale), si apre tuttavia un’ulteriore questione; perché imitare un manoscritto? e che cosa si imita, più precisamente, quando si imita un manoscritto? A quest’ultima domanda, si porrebbe rispondere che imitare un manoscritto equivale ad imitare l’aura benjaminiana: non è proprio l’esser scritto a mano ciò che conferisce a qualsiasi testo il carattere di unicità, il “valore cultuale” (il Kultwert) di cui risulta priva la riproduzione tipografica, altrimenti perfettamente identica, dello stesso testo? Ora, Benjamin rifletteva sulla fotografìa e sosteneva che la labilità e la riproducibilità della foto, a paragone con il dipinto, costituiscono appunto la perdita dell’aura; ma, rispetto ai tempi in cui scriveva, la principale novità consiste nel fatto che i mezzi tecnologlci oggi a disposizione consentono, per esempio, la realizzazione di uno pseudo-manoscritto, cioè la riproduzione anche dell’aura. Da questo punto di vista, le 231 formelle della SS. Annunziata che formano questa Bibbia costItuiscono, a 544 anni di distanza, il compimento, ma anche la negazione, delle 1282 pagine che formavano la Bibbia di Gutenberg, il primo testo a stampa della storia occidentale. In altri termini: la riproducibilità tecnica dell’opera, almeno nel caso del manoscritto, nonché comportare la caduta dell’aura, ne permette un paradossale rilancio.
Paradossale perché dal momento in cui non è più unica, ma riproducibile, non è più nemmeno l’aura, ma solo la sua mistificazione. E sembra un’impasse senza vie d’uscita: è la rivincita dell’aura, la sua estrema trasfigurazione, o la sua morte definitiva? E’ forse l’impossibilità di rispondere a tale dilemma che alimenta la radice più profonda di questo come di altri lavori di Faliini, cioè la sua radice ironica: ironia metafisica nei confronti dell’arte, beninteso, non nei confronti del testo sacro. Se il lavoro è l’imitazione di un manoscritto, allora Fallini finge, ironicamente, di avere trascritto a mano l’Antico e il Nuovo Testamento. In questa prospettiva, diversamente da quanto s’è detto più su, bisogna anzi sottolineare una coerenza rispetto al Nome della rosa e alle Mille e una notte, in quanto saremmo tentati di affermare che in tutti e tre i lavori, Fallini ha sempre fatto finta: nel primo e nel secondo caso si trattava di un’ironia leggera, quasi un sorriso a fior di labbra di chi prende diletto nell’andare ostentatamente contro corrente, facendo il verso, per dir così, a un lavoro d’altri tempi, quello dell’amanuense o, se vogliamo, in un’interpretazione ampliata perché non più circoscritta nel limite dei capilettera, quello del miniatore. Nel caso della Bibbia l’operazione è ancora più radicale e sembra assimilabile a quella che i manuali di retorica classica chiamano “Ironia di azione tattica” (citiamo Lausberg): l’oratore finge di aderire ad una tesi cui non crede solo per ingannare la parte avversa, così da mantenerla nell’equivoco. Allo stesso modo, si direbbe, il lavoro di Fallini utilizza lo stratagemma dell’inganno perché le formelle simulano e, al tempo stesso, dissimulano il manoscritto. Si sa che sull’ironia, già dalla pagina celebre di Teofrasto , si proietta l’ombra minacciosa della frode: ma Fallini non teme di esporsi al rischio di tale fraintendimento. Non a caso, già molti anni fa, ha chiesto all’amico Enzo Bruno di fotografare le foto di numerosi suoi lavori affastellati in un’unica immagine di quattro centimetri di lato e, sotto quella bizzarra ed illeggibile caterva di oggetti, non ha esitato a scrivere il titolo Micropsychia, che in Aristotele designa non la modestia, ma la pusillanimità (vale a dire il difetto che si oppone, così come la vanità - suo simmetrico opposto -, alla virtù della magnanimità). Oggi sembra ancora sottrarsi, di nuovo come un pusillanime, al suo compito: dopo essersi ridotto al ruolo di amanuense, rifiuta di investirsi persino di quel modesto ruolo. Perché, infine, Fallini non ha trascritto sul serio la Bibbia, come ha fatto per il Nome della rosa e per le Mille e una notte? Ma perché sarebbe stato comunque troppo o troppo poco: il prodotto, superfluo come trascrizione (dal momento che in qualsiasi libreria si può trovare un’edizione a stampa infinitamente più agevole da leggere), sarebbe rimasto insufficiente come imitazione. E non potendo sfuggire all’alternativa, l’ha rappresentata con una doppia finzione ironica: la Bibbia è al tempo stesso una simulazione e una dissimulazione (si simula ciò che non è, si dissimula ciò che è), in quanto si tratta della simulazione di un manoscritto e della dissimulazione di un’imitazione; simulazione e dissimulazione che si implicano reciprocamente, poiché non si può dare l’una senza l’altra. E se la simulazione può sembrare ambigua, la dissimulazione, per dirla con Torquato Accetto , è senz’altro onesta. Non soltanto in senso estetico (è inutile sottolineare quanto c’è di classico in questo gesto che traduce nell’orizzonte dell’arte concettuale l’antico precetto che l’artificio deve restare nascosto e che è tanto più riuscito quanto più appare spontaneo), ma anche in senso religioso: nonché aspirare ad ingannare qualcuno, la finzione di Fallini sembra piuttosto richiamare le pagine che Kierkegaard, a margine degli scritti dl Solger, ha dedicato alle implicazioni religiose dell’ironia, laddove ricorda come il gioco ironico che oppone le apparenze l’una all’altra al fine di dissolverle tutte, possa sfociare in una denuncia dei limiti del finito. Allo stesso modo, il gesto di Fallini, che fingendo di trascrivere il testo sacro, ha invece addirittura sottratto la propria mano, fa pensare al silenzio che si impone alla propria voce, perché si possa udire la voce di un altro.
Parma, marzo-aprile 2000
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