L'arte di Mario Fallini è particolare. Ci sono opere che lasciano perplessi per il loro carattere unico e dissacrante. Citiamo, come esempio, un lavoro dal titolo “Si fanno le ossa” in cui due scheletri, la cui azione non è immediatamente percepibile, proprio a causa della stranezza dell’evento, sono rappresentati nel compimento di un amplesso. Fallini riprende il detto proverbiale “…si fanno le ossa”, detto che, a tutta prima e adoperato in maniera assoluta, evoca il compiersi di un’esperienza formativa. Ma “fanno”, voce del verbo fare, tempo presente indicativo, 3° persona plurale, ha anche il significato gergale figurativo di avere rapporti sessuali con qualcuno. Sintatticamente il verbo impersonale “si fanno” è qui interpretato in funzione di riflessivo reciproco in cui due soggetti (le ossa) ricevono l’azione scambiandosela. Si potrebbe ancora disquisire sulla forma attiva e passiva, caratteristica che in grammatica appartiene al verbo, ma in questo caso può essere estesa anche al soggetto. Ma non solo, osservando con attenzione il quadro, si noterà anche una certa irregolarità della cornice, un’irregolarità che evoca la forma di una bara. A causa di questo e etichettando il lavoro di Fallini né più né meno che una “scena di conversazione”, vengono a mente le parole di Mario Praz a proposito di un quadro di Paul Delvaux intitolato “Squelettes dans un bureau”. Lo studioso sentenziava che ci troviamo di fronte a un aggiornamento di conversazione portato all’esasperazione, con i ritratti ormai defunti e presentati nella loro attualità ossea. Anche in questo caso, l’idea di “aggiornamento” è talmente avanzata che i protagonisti della scena sono presentati ben al di là di quello che è il normale corso di una vita, perpetrando un atto ormai concluso da anni.
Carlo Pesce |
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