IL CATALOGO
Pirografie
testi | Andrea Calzolari - foto | Enzo Bruno
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P oche parole basterebbero per presentare i lavori di Mario Fallini: forse sarebbero addirittura superflue data la limpidezza di una ricerca che, pur articolandosi in direzioni diverse, è sempre chiara, corretta e, verrebbe voglia di dire, metodologicamente onesta. In un tempo che vede tanti giovani abilissimi, ma già smaliziati ed esperti nel triste mestiere di sfruttare fino all’osso e senza discussioni l’ultima formula offerta dal mercato delle idee, fa piacere un giovane che possiede l'onestà del dubbio e che, pur attestando indubbie capacità tecniche, ha il coraggio di sacrificare il conseguimento di esiti formali compiuti per saggiare le strade verso le quali é condotto da un’intelligenza curiosa ed irrequieta (basterebbe, in proposito, ricordare i diversissimi materiali precedentemente sperimentati da Fallini).
Nè appare difficile — data appunto la trasparenza di un procedimento che va diritto allo scopo — identificare i pilastri della tradizione all’interno della quale lavora Fallini, cercando una propria sintesi.
Alla base sta un gusto d'ascendenza dadaista (Duchamp è esplicitamente citato) che ama spiazzare o accostare simboli in un gioco paradossale e liberatorio, risolvendosi in due possibili direzioni teoriche, spesso fuse tra loro sul piano pratico: laddove prevale l'immagine sfocia in operazioni metalinguistiche che, riecheggiando l’esperienza "pop", sviluppano una riduzione critica dell’iconografia rinascimentale a sigle irriverenti ed ironiche (si veda, per esempio, "La scuola di Atene"); quando invece é più forte l’attenzione ai significati, approda a soluzioni che sembrano più vicine alla pratica concettuale, formalmente assai spoglie e tutte protese ad inseguire le risonanze semantiche che si allargano indefinitamente, come i cerchi intorno ad un sasso gettato nello stagno, evocate da nomi mitici, come nel "Monogrammi".
Queste mie parole sarebbero dunque abbastanza inutili, se qualche cosa non restasse inspiegato e quasi mimetizzato, benché apertamente esibito, dalle immagini; un particolare che sembrerebbe irrilevante, ma che proprio per la sua irrilevanza fa pensare: l’impiego della pirografia.
In fondo tutte queste immagini potrebbero essere eseguite con qualche altra tecnica grafica e la scelta di questo mezzo arcaico, prevalentemente usato nelle cosidette arti applicate e che contrasta singolarmente con la modernità dell’ispirazione, potrebbe esser spiegato come una sorta di affezione, innocuamente maniacale o — peggio — pericolosamente estetizzante, a una concezione artigianale e manierata del produttore artistico. Ma se dovessi scommettere sul futuro di Fallini, io scommetterei proprio su questa apparerite bizzarria,e non tanto ovviamente sulla pirografia in sè, quanto sulle motivazioni (inconsce forse, ma non per questo meno serie) che lo hanno spinto ad abbandonare matita e pennello per impugnare la punta rovente che traccia segni dal contorno incerto su nude tavole di legno.
C’è, in tutto questo, un’attenzione al supporto e al lavoro, che m’importa più delle stesse immagini; c’è un desiderio dl far entrare l’immagine nel legno e come di incorporarla alla tavola, attestato anche dall’uso delle aniline (vernici che vengono assorbite dal materiale e non si sovrappongono alla superficie del supporto), che svela le radici più profonde ed antiche del gesto quotidiano con il quale ciascuno di noi sogna di modificare le cose e al tempo stesso di farsi cosa: sogno di manifestarsi in immagini certamente; certamente dl enunciare sè stesso nell'epifania di un messaggio, ma anche desiderio di passare attraverso il fuoco del linguaggio, bruciandosi fino in fondo nella traccia, per trasformarsi nel legno stesso che accoglie il gesto.
Avviene, allora, che Fallini con pochi tratti essenziali (talvolta bastano due strisce bruciate e una campitura all’anilina) si collochi di colpo AL MARGINE TRA IMMAGINE E CONCETTO, TRA SEGNO E SUPPORTO, raggiungendo quel felice e precario equilibrio che non solo dà vita ai risultati migliori della sua ricerca, ma costituisce appunto, credo, il luogo d'origine del suo lavoro futuro. Parma, gennaio 1978.
ANDREA CALZOLARI |