I - SCRIVERE IN PIROGRAFIA
I - Scrivere in PirografiaParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
FEU - tohu-bohu fulminant et fuligineux. FLAMBEAU (le feu lent enfle sa faux). FLAMME - fluide mâle, elle s’effile comme une lame. FOYER - foi noyée, oie domestique. M. LEIRIS, Glossaire.
L a pirografia, recita il dizionario, è “la tecnica del disegnare, con una punta metallica arroventata, su cuoio, cartone, legno e simili”. Ma per scrivere dell’attività di Mario Fallini occorrerebbe affidarsi al lessico dell’immaginario, cioè a quelle associazioni verbali che ispirano spesso i titoli dei suoi lavori e che Jacques Derrida - con un rilievo in questo caso più che mai pertinente - ha proposto di chiamare, piuttosto che “giuochi”, “fuochi” di parole.
La pirografia mi appare allora una tecnica che si apparenta, per esempio, alla piromanzia (praticata da qualche sciamano nelle steppe caucasiche o dai malinconici aruspici della Roma arcaica) e contemporaneamente al piropo, gemma che non ho mai visto, ma che confuse reminescenze letterarie mi fanno associare all’immagine di gioielli barbarici sul corpo di regine belle e crudeli, come quelle che da bambino vedevo raffigurate nelle vignette del Novissimo Melzi e che più tardi credetti di ritrovare tutte incarnare nella flaubertiana Salammbô . Poco importa, poi, che gli aruspici esercitassero la divinazione sulle viscere degli animali sacrificati o che Flaubert non nomini mai il piropo tra le pietre preziose di cui è frequentemente adorna la sua eroina: la mia Salammbô è una creatura bastarda, il parto della fantasia di un adolescente affascinato dalle pagine di un romanzo, così come gli aruspici di cui parlo non sono quelli descritti nei trattati di storia delle religioni, ma gli esseri immaginati per dare corpo al suono suggestivo di una parola, incontrata per la prima volta, credo, nel latinuccio faticosamente tradotto alle medie inferiori.
Non diversamente, se in questa circostanza mi sembra una felice coincidenza la parentela tra la pirografia e la pirolisi non è perché il lavoro di Fallini abbia qualcosa a che fare con il processo di scissione chimica oggi impiegato soprattutto per il petrolio o per i rifiuti d’origine organica, ma perché quel termine tecnico - “pirolisi” - richiama invece alla mia mente le procedure degli alchimisti, per i quali, come si sa, il fuoco era il solvente universale. A chi ritenesse arbitrarie e fuori luogo queste divagazioni potrei rispondere, innanzi tutto, che tramite la mia modesta pirolisi linguistica, ho rievocato quelli che sono, di fatto, i tre maggiori filoni tematici di Fallini: il mito, l’erotismo e l’alchimia. In secondo luogo, potrei poi aggiungere che ho cercato semplicemente di mimare in sede verbale, ed in chiave didascalica, il suo stesso modo di lavorare. Fallini è come un ragazzo che rovista in soffitta tra abiti vecchi, mobili dimenticati, suppellettili abbandonate, e sì diverte a travestirsi con costumi eterocliti, così da rievocare personaggi, ambienti e situazioni sospesi in uno spazio immaginario che non appartiene né al presente né a un passato determinato.
Ricorrendo a un concetto elaborato parecchi anni fa da Lévi-Strauss (ed oggi felicemente démodé), si potrebbe dire che Fallini pratica una sorta di bricolage: per costruire le sue immagini ripesca nel patrimonio iconografico del passato elementi dispersi, che poi assembla secondo la necessità dettata dalla pulsione analogica di una fantasticheria o di una suggestione inconscia, lavorando all’incrocio tra la memoria storica e quella individuale.
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II - UN ARCHIVIO AL PASSATO PROSSIMO
II - Un archivio al passato prossimo: la tradizione dell'inattualeParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
F allini parla spesso del suo universo tematico, con una terminologia adeguata all’età dell’elettronica, come di una “banca di immagini”. Ma che l’archivio di dove riesuma i suoi temi sia davvero un ripostiglio di cose smesse appare evidente dalla sua iconografia, che mutua dalla lingua alta della pittura colta solo elementi marginali (come le anamorfosi: bizzarrie che colpiscono facilmente l’immaginazione) e che per il resto è invece nutrita da un mondo iconografico sommerso, costituito, per esempio, dalle illustrazioni neoclassicheggianti (esangue declinazione della tradizione inaugurata da Flaxman) dei poemi omerici che studiavamo a scuola o dalle figure delle enciclopedie popolari o, ancora, dalle vignette pubblicitarie primonovecentesche che si possono casualmente trovare sui fogli di giornale impiegati per foderare il fondo di qualche vecchia cassapanca.
Immagini dimenticate, eppure vagamente familiari, o meglio: familiari e, contemporaneamente, stranianti, come gli sguardi che accolgono il viaggiatore inoltratosi nelle baudelairiane “forêts de symboles”. In sintonia con questo lessico sono del resto le tecniche adottate, che si incentrano su un procedimento umile, vecchiotto e disusato come la pirografìa, ma che non rifuggono dall’impiego, oltre che del legno, dei materiali più disparati, come la cera, la ceralacca, il fosforo, il filo di rame e altri metalli più o meno elaborati, pietre, vetro, pelli varie, la terracotta e persino dei coralli, ancora una volta in coerenza con l’euristica del bricolage, che talvolta si lascia suggestionare dall’objet trouvé (fino alla tentazione latente del ready-made: ciò che non meraviglia in un devoto cultore di Duchamp come è Fallini), talaltra lo riutilizza in un contesto nuovo.
Il suo è, insomma, uno stile basso, “humilis” avrebbero detto i teorici della retorica antica, sia per le tecniche adottate sia per la lingua impiegata: non solo recupera un modo di produzione artigianale come la pirografia, ma colleziona tesori da rigattiere, materiali ed immagini vecchi, si direbbe, più che antichi, cose insomma che, per restare in metafora, sarebbero disdegnate come ignobili da un antiquario serio. Donde il loro carattere unheimlich: il passato remoto ci è familiare quanto il presente; ciò che ci inquieta è il passato prossimo, qualcosa che non ha ancora l’eterna attualità dei classici, ma che è decisamente e irrimediabilmente passato di moda. In realtà quelli che diciamo i classici sono morti da tanto che hanno avuto il tempo e la forza (ma forse basta solo il tempo) per rinascere a nuova vita, mentre ciò che è semplicemente inattuale è ancora troppo morto, poco importa se per mancanza di tempo o di forza, e la sua morte ci riguarda ancora troppo da vicino: per questo è contemporaneamente familiare e inquietante, perché nel suo invecchiamento e nella sua debilità leggiamo il nostro stesso invecchiare e morire.
Decentrato - ma non eccentrico, straniante - ma non estraneo, l’inattuale è contemporaneamente esotico e domestico, come ciò che non appartiene più al presente, ma non fa ancora parte della storia. Né mi si obietti che spesso, nel lavoro di Fallini, sono citati, per esempio, i miti classici, poiché, come ho già notato, la cultura alta e antica approda qui solo mediata dalla divulgazione meno colta, e come filtrata attraverso l’immaginario popolare o infantile.
Ed è proprio questo che produce l’effetto straniante di cui s’è detto: ci è familiare la Gioconda o una sua immagine fotografica aggiornata; ci disturba invece una sua riproduzione divulgativa ottocentesca o più recente, perché la sentiamo infedele, inadeguata, inintelligente, anche se proprio quella era la Gioconda che si fissava nell’immaginario collettivo o individuale. Quanti sono, infatti, coloro che hanno visto l’originale di Leonardo, e quanti coloro che l’hanno visto subito? Se la mia generazione l’ha conosciuto per la prima volta in una di quelle figurine che i ragazzi collezionavano negli anni cinquanta, i nostri padri l’hanno probabilmente incontrato nelle figurine Liebig e i nostri nonni in qualche altra, più antica versione divulgativa: tutti ne sono stati condizionati e la massa di coloro che non hanno mai messo piede al Louvre s’è dovuta accontentare di quelle immagini.
Ma se è vero questo, bisogna concluderne che il passato prossimo di cui ci parla il “sermo humilis” di Fallini è un’area simultaneamente datata e intemporale, in quanto votata a un’eterna inattualità; è cioè una sorta di limbo nel quale confluiscono le memorie marginali delle successive generazioni, quei residui della storia della cultura che non hanno conosciuto e non conosceranno mai l’offesa del tramonto solo perché non hanno mai conosciuto la gloria del pieno mezzogiorno: frutti che non sono mai giunti a maturazione o che sono nati in perenne, irrimediabile ritardo rispetto al presente trionfante dell’attualità.
Si comprende così il criterio che orienta Fallini nella scelta di citazioni apparentemente eterogenee, che per lo più presentano personaggi con baffi e abbigliamento ottocenteschi, ma che spesso fanno incursione in altre epoche storiche (soprattutto nel rinascimento, come, per esempio, in un recente, splendido lavoro che ripropone una versione popolare della MeIancolia di Dürer): il fatto è che ogni età ha avuto il suo passato prossimo, la sua produzione marginale, quella che non è mai stata attuale e che, proprio per questo, non corre il rischio di essere rimessa alla moda da uno degli innumerevoli revivals di cui si alimenta la moda stessa. L’archivio che Fallini si costituisce, trasferendo la poetica dell’objet trouvé dalla quotidianità alla storia della cultura fìgurativa, è insomma - pur con una rilevante eccezione, su cui si dovrà tornare - un museo di oggetti smarriti, un inventario di quel che nessuno si è mai preoccupato di recuperare, un catalogo di occasioni perdute. Un brefotrofio, se si vuole, un ospizio per trovatelli presso il quale una madre mancata va a cercare in un figlio abbandonato il complemento necessario a realizzare la propria femminilità. O ancora, un repertorio di immagini umili da riscattare, come quello a cui attingeva Max Ernst per la sua Settimana di bontà, ma con la differenza che oggi l’operazione di adozione è ancora più agevole, poiché qualsiasi biblioteca specializzata è in grado di offrire a chiunque esaustivi e ordinatissimi inventari iconografici (che sono poi le “banche di immagini” di cui parla Fallini).
Proprio per questo, però, è più difficile scegliere, mentre è fin troppo facile la dissacrazione di un certo tardo surrealismo. La nutrice che cerca con ansia il figlio sognato, scrutando nelle fìsionomie segni che solo il suo amore può identificare e decifrare, è in realtà meno visionaria di quel che si potrebbe pensare: l’immagine, infatti, è figlia naturale del padre che l’ha raccolta, nutrita e allevata nella propria casa, esattamente come quel padre è figlio di quella trovatella.
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III - UN BRICOLAGE ONIRICO
III - Un bricolage OniricoParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
E' su questo terreno periferico e abbandonato che vaga Fallini, seguendo percorsi che lo portano lungo le strade secondarie o i vicoli ciechi della civiltà, là dove si sono arenate le derive della memoria storica e collettiva, giacendo in un letargo che solo le derive semi-inconsce della memoria individuale possono ridestare e strappare alla morte. Ma quali sono i modi di selezione e di montaggio del lessico verbale e figurativo che Fallini preleva da quella particolare tradizione?
E’ noto come funziona la logica del bricolage - l’ha già chiarito Lévi-Strauss, appunto - , che procede instaurando rapporti di equivalenza analogica lungo gli assi metaforico e metonimico, a livello di significanti e di significati; e non occorre nemmeno insistere sull’intervento di quella che secondo Jakobson è la caratteristica essenziale della funzione poetica, e cioè l’affermazione di un sistema di equivalenze generalizzato che proietta un asse sull’altro e consente di scambiare continuamente i livelli. Importa piuttosto rilevare, perché si tratta di un indizio assai significativo, il coinvolgimento costante del materiale verbale: i titoli dei lavori di Fallini non sono mai etichette superflue, ma fanno parte integrante del gioco.
In Quod libet, il primo della serie di dieci lavori presentati in questa cartella, il titolo opera, per esempio, un effetto di surdeterminazione che dilata l’enigmaticità del paradosso proposto: come nelle dispute logiche medievali, Fallini suggerisce che si può cominciare da un argomento qualsiasi (“quod libet”) - e in modo anche bizzarro, inconsueto e contrario al senso comune, come sarebbe il tentativo di aggredire un turacciolo conficcando il cavatappi alla rovescia, dall’interno della bottiglia. Metaforica fuga della coscienza, protesa a “riveder le stelle”? Ma no, perchè il cielo resta alle spalle del fuggitivo, sul fondo della bottiglia, ivi trapiantato da qualche incantamento: sicché si tratterebbe di salire verso il basso, o di aprirsi verso il chiuso, o come volete voi, insomma e ancora una volta (non bisogna dimenticare, forse, che “quodlibet” è anche il termine con cui, nel rinascimento, si indicava una composizione musicale profana e divertente, che mescolava generi diversi, infischiandosene delle regole).
In Saldi di fine stagione, il rapporto tra parole e immagini è ancora più complesso. L’opera, in questo caso, sembra addirittura ispirata dall’espressione verbale: ma mentre la gruccia si limita semplicemente a visualizzare i “saldi” per allusione metonimica ai grandi magazzini di abbigliamento, la ‘fine di stagione” è metaforizzata da due teschi, immagine della morte. Infine, se il titolo di Gerundio ha anche una valenza più propriamente semantica, in quanto modo verbale privo del futuro (vedremo meglio il significato di tale indicazione), va poi a finire che la curva del supporto di rame costituisce una felicissima equivalenza figurativa del suono che caratterizza la desinenza dei gerundi, nonché della parola stessa “gerundio”: non credo siano state fatte esperienze in proposito, ma sarei disposto a scommerrere che Fallini ha scoperto in questo caso una di quelle omologie di strutture percettive studiate dalla psicologia della Gestalt.
Questa stretta connessione tra parole e immagini, questo farsi immagine della parola, è una nota caratteristica del lavoro onirico: chiara testimonianza delle ascendenze surrealiste di Fallini, essa costituisce la traccia linguistica di un attenzione alle suggestioni inconsce che si manifesta in modo ancora più esplicito nell’ erotismo strisciante, per così dire, ma non per questo meno incisivo, di molti suoi lavori: se in Quod libet il vaso di vetro allude all’athanor - cioè al forno per la trasmutazione degli elementi, che gli alchimisti stessi assimilavano alla matrice femminile -, il cavatappi, ordigno apparentemente estraneo alla strumentazione e al simbolismo alchemici, è un evidente simbolo fallico.
Ciò non implica necessariamente un’ incoerenza o una consapevole dissacrazione, intanto perché il sogno ignora il principio di non contraddizione, e poi perché il fallo è diretto verso l’esterno, come se fosse in procinto di nascere (piuttosto che di fecondare), sicché il tutto potrebbe essere letto anche come una rnetafora, forse non proprio ortodossa, della fede alchimistica nella rinascita della vita mediante la trasmutazione operata nell’athanor (inoltre Fallini, dopo aver letto questo mio scritto, mi telefona per segnalarrni che in realtà il succhiello del cavatappi richiama la vite senza fine, simbolo del lavoro alchemico).
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IV - ALCHIMIA E IRONIA
IV - Alchimia e IroniaParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
MODERNE - la plume au derme. …cette modernité pour laquelle je me serai mis tellement martel en tête et qui m’aura fait si mornement louvoyer, merdoyer, que, sardonique, je l’appellerai pour un peu merdonité... MODERNITE’ mort-née (tôt dédorée, tôt mitée, tôt reniée). M.LEIRIS, Glossarie (1939); Le ruban au cou d'Olympia (1981); Langage tangage (1985).
E' difficile, dunque, in questo come in altri casi, stabilire se sia l’erotismo a impadronirsi della simbologia aichimistica o viceversa. Nondimeno è necessario interrogare il senso dei frequenti riferimenti di Fallini all’alchimia, che sembra interessarlo a doppio titolo. In primo luogo, infatti, l’alchimia è stata uno dei vicoli ciechi o abbandonati della storia: non occorre, in questo contesto, prender partito nella disputa che oppone i fautori dell’alchimia come disciplina spirituale, modalità dell’eterna rivelazione e quindi eternamente attuale, a chi viceversa l’interpreta come una progenitrice preistorica, ormai definitivamente soppiantanta dalla chimica, della scienza moderna. Non credo che Fallini abbracci la prima ipotesi, anche perché la sua riproposta della simbologia alchimistica sarebbe troppo approssimativa, troppo mediata, ancora una volta, dalla sua versione divulgata e divulgativa, per pretendere di reincarnare seriamente una disciplina oltre tutto così squisitamente e intransigentemente esoretica.
Sarebbe tuttavia riduttivo anche pensare che utilizzi l’apparato concettuale alchemico solo formalmente: direi piuttosto che Fallini crede sì nell’alchimia, ma solo in quanto impresa destituita di ogni fondamento e di ogni risultato (anche spirituale); tanto più ci crede, insomma, in quanto sa che non significa nulla. Avremo bisogno di chiarire questo apparente paradosso, il cui senso tuttavia comincia già a delinearsi se si tien conto che esiste un secondo grado di riferimento all’alchimia, quello basato sul fatto che gli alchimisti rinascimentali stessi erano profondamente convinti che la loro ricerca consistesse essenzialmente nel tentativo di riscoprire il segreto di una sapienza antica, andata purtroppo smarrita nel corso dei secoli. E proprio in ciò essi erano e si sentivano moderni: del resto la modernità, come ha chiarito più di ogni altro Walter Benjamin, non è la moda che è sempre attuale, ma è invece lo sforzo di far parlare il rimosso della civiltà, per esempio il passato senza nome e senza voce dell’infanzia e dell’inconscio. A tale modernità s’ispira senz’altro Fallini, com’è provato da tutto un filone della sua produzione (non rappresentato in questa serie) che costituisce un’eccezione alle modalità dell’archivio al passato prossimo: lavori come La sfinge di fronte all'enigma di Isidore Ducasse (1977), La fuga della vedova a quattro piume con l'impresario scapolo delle pompe funebri (1982), Anamorfosi della sposa (1983), Quasi lugubre a Notre-Dame (1984), e altri ancora, non riprendono, infatti, la tradizione iconografica popolare e divulgativa, ma citano esplicitamente, e senza alcuna mediazione, l’opera di Duchamp o di Man Ray. Sembrerebbe così confermata l’ipotesi di Jauss che individua nel post-moderno il movimento di separazione dal moderno come da una nuova classicità.
Nel caso di Fallini, però, il privilegio riconosciuto ai moderni ha un significato almeno ambiguo, poiché quelli che starebbero per diventare - o sono già diventati - i nuovi classici sono collocati nell’area che è stata descritta come l’eterna inattualità del passato prossimo. Il post-moderno, allora, non sarebbe il passaggio alla classicità, cioè alla perenne attualità, del moderno, ma piuttosto il suo ritrarsi nella penombra dell’inattuale. Si potrebbe naturalmente obiettare che il passato prossimo è solo una condizione transitoria, la fase di passaggio inevitabile e necessaria per approdare alla storia: è, anzi, addirittura ovvio prevedere che le cose andranno proprio in questo modo. Ma non è in questa direzione che guarda Fallini quando, sottraendo il moderno sia all’attualità sia alla classicità, lo confina in ciò che - in modo approssimativo e in mancanza di meglio - ho chiamato il limbo simultaneamente datato e intemporale del passato prossimo. In altri termini, se quel che si lascia pensare ancora confusamente (almeno per quel che mi riguarda) nel post-moderno ha un senso, esso sembra consistere in un gesto analogo al movimento che, nella filosofia contemporanea (e soprattutto nell’opera di Jacques Derrida), si attesta come critica alla metafisica della presenza: vale a dire, un gesto che oppone tanto al presente-presente del moderno quanto al presente-passato dei classici un non-presente inclassificabile e inquieto che, nel caso di Fallini, si potrebbe definire il tempo di un trapasso.
Non diversamente dagli alchimisti del rinascimento, dunque, anche Fallini fruga nella memoria storica e, come i migliori tra i surrealisti (quelli che continuiamo a frequentare come i nostri fratelli maggiori), altro non fa che contrapporre all’orgia iconografica della civiltà dei consumi, l’illuminazione umile ed intensa di un fuoco di immagini che dovrebbe restiruirci il suono ed il senso di una lingua materna perduta. La coscienza contemporane tuttavia sa che tale idioma originario - come la sapienza antica postulata dagli alchimisti - è cominciato ad esistere solo dal momento in cui l’abbiamo perduto, non è nient’altro che il fantasma di un’origine prodotto a posteriori e proiettato in un passato che non è mai esistito: ciò da cui derivavano le peculiarità della ricerca aichemica, affidata necessariamente a una casualità strutturale, che si cercava di eliminare con una fede ostinata nella potenza metodica della ripetizione.
A tali criteri si attiene anche Fallini, la cui dichiarata ostilità nei confronti dell’aleatorio e dell’indeterminato si traduce in un’attenzione intransigente e quasi maniacale persino per le più trascurabili minuzie: nei suoi bricolages, apparentemente così strampalati e paradossali, in realtà nulla è lasciato al caso ed anche i più piccoli particolari sono sempre calcolati e predisposti all’interno della rete dei rapporti analogici (in HP, per esempio, il reticolo di fondo del contenitore da cui esce la ceralacca che disegna la figura di un cavallo, ha struttura esagonale per richiamare la forma delle celle delle api). Ai nostri occhi disincantati, peraltro, la costanza dell’alchimista, la sua incrollabile fiducia nelle virtù del caso e della ripetizione, così come la ferrea osservanza delle regole procedurali, assomigliano sempre di più ai tic e ai rituali del giocatore d’azzardo. Per questo il fuoco di Fallini non è la vampata ribelle e prometeica delle avanguardie storiche, ma un focolare domestico, mantenuto con amore e con perseveranza, ma anche con il senso dell’ironia che non può mancare a chi cerchi di opporre la pirografìa alle levigate immagini elettroniche. Ingenuo, ostinato e superstizioso come un bambino o come un giocatore d’azzardo, l’alchimista contemporaneo è tuttavia riscattato dall’ironia, innanzitutto nel significato originario della parola. Come l’eiron descritto da Aristotele e Teofrasto, egli è infatti colui che sminuisce o addirittura disprezza se stesso. L’etica classica aveva in sospetto questo atteggiamento, nel quale subodorava la dissimulazione o la pusillanimità, ma non a caso Fallini, in un recente lavoro per così dire autobiografìco, s’è richiamato proprio alla micropsychia aristotelica: l’ironista moderno si fa forte della coscienza anticipata dello scacco. L’ironia di un’illusione saputa e coltivata come tale, diventa allora la forma stessa di una scommessa che, tanto consente una possibilità di vincita, quanto si sa perdente in anticipo. Il guadagno è l’alchimia sommessa ed eversiva che scaturisce dal crogiolo delle immagini e dei materiali, lieve, inaspettata e irriverente come un Witz.
Così, Il rasoio di Occam è rappresentato da un rubicondo volto insaponato che aspetta sorridendo l’opera del barbiere, senza accorgersi che il getto fendente di un rubinetto, sospeso sulla sua testa come una spada di Damocle, l’ha già tagliato in mezzo. Ne La fissazione dell'incorreggibile Mercurio (classica operazione alchimistica) una pesante scarpa ortopedica minaccia di “correggere” i piedi nudi e indifesi dell’irrequieta divinità che spuntano da sotto il paravento, mentre la pupilla vitrea di godimento dello stesso Hermes scruta attraverso un buco, come se in realtà la sua ‘fissazione’ fosse quella di uno scoptofilo impenitente che non si stanca di spiare gli spettatori, i quali passeggiano incautamente in galleria, tutti vestiti. In Saldi di fine stagione, i grandi magazzini, fìnite le feste, offrono con grandi sconti una morte per tutte le taglie, un “caput mortuum” alla portata di qualunque borsa, elegantemente confezionato in anamorfosi. Nel momento e nel modo stesso in cui è proposta, la citazione è ironicamente revocata, facendosi equivoca come un gioco di parole. Da Rimbaud in poi, in tutta la tradizione del moderno (ed in particolare nella cultura letteraria e figurativa surrealista) l’appello all’alchimia esprimeva la fede nel futuro avverarsi dell’utopia. Indubbio erede di quella tradizione, Fallini la ribalta però nel post-moderno di un’ironica utopia al passato prossimo.
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V - MEMORIA E ALLEGORIA
V - Memoria e AllegoriaParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
J’ai toujours été séduit par les allégories, lecons par l’image en même temps qu’énigmes à résoudre (...). De très bonne heure, me soeur m’avait initié à certaines de ces représentations mythologiques, - telle la Verité, sortant nue de son puits un miroir à la main, et le Mensonge, femme au charmant sourire et somptueusement parée. J’étais si fasciné par cette dernière apparition, qu’il m’ arriva une fois de dire, parlant avec ma soeur d’une femme dont je ne sais plus si c’était quelqu’un de réel ou l’héroïne d’un conte: “Elle est belle comme le Mensonge! M.LEIRIS, L' Age d'homme.
C aratterizzando l’ironia come coscienza anticipata dello scacco ne abbiamo indirettamente rilevato la natura essenzialmente temporale: ed è precisamente questo elemento, secondo Paul de Man, a costituire la radice strutturale che l’ironia ha in comune con l’allegoria. Due figure, sostiene lo studioso, che sarebbero tuttavia in un rapporto di reciproca inversione speculare: sincronica e tutta incentrata sul presente l’ironia, diacronica e narrativa l’allegoria. Se la memoria e l’esperienza della temporalità, come abbiamo ripetutamente sottolineato, stanno alla base del lavoro di Fallini, dovremmo dunque aspettarci anche l’intervento di una intenzione allegorica. Ciò che in effetti si verifica, anche se in questo caso (e forse non solo in questo) il rapporto di specularità di cui parla lo studioso americano si caratterizza più propriamente come l’opposizione simmetrica tra il futuro della coscienza anticipatrice e il passato della memoria allegorica. “Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose”, ha scritto Benjamin in una famosa, folgorante definizione; e lo stesso de Man ha ribadito che il segno allegorico si nutre della ripetizione, significa soltanto in quanto rinvia non tanto a un significato, quanto ad un altro segno che lo precede.
Ora, questo è precisamente il senso che assume in Fallini il ricorso all’alchimia come a un sistema privilegiato di riferimento, sorta di supercodice cui è delegato il compito di strutturare in un complesso organico di grandi articolazioni narrative la massa eterogenea di suggestioni provenienti da fonti disparate (i ricordi infantili, l’inconscio, gli oggetti smarriti della storia e della vita quotidiana, i materiali). Nella serie qui presentata la dimensione allegorica si manifesta persino in un tratto caratteristico, quello segnalato già dai vecchi trattati di retorica che la definivano appunto come una prolungata sequenza di simboli, la cui tenuta complessiva era garantita da un parallelismo precostituito e convenzionale tra linguaggio metaforico e chiave interpretativa concettuale. I dieci lavori sono infatti un’allegoria delle diverse tappe del procedimento alchimistico. Quod libet, l’abbiamo visto, si richiama alle perplessità e alle discussioni relative alla natura dell’impresa alchemica (di cui, per altro, forse simboleggia la nascita). C'è ancora una macchia qui, Occam! invita l’istanza critica a farsi avanti, a venire a cancellare quest’ultima follia irrazionale, ma contemporaneamente non nasconde il sospetto che un barbiere troppo razionalista possa diventare pericoloso. Dopo aver evitato anche la tentazione della Luxuria, il nostro alchimista può mettersi al lavoro e progettare il ricongiungimento tra terra e cielo (Aeronautico è il cielo) e persino La fissazione dell'incorreggibile Mercurio.
Ma la tentazione si offre anche all’interno della via alchemica: si sa con quanto disprezzo gli alchimisti guardassero i loro confratelli degeneri o quei loro volgari imitatori che si ripromettevano soltanto di arricchirsi mediante la trasmutazione dei metalli: Il soffiatore rappresenta qui appunto questa figura di alchimista incapace, avido e millantatore. L’impresa è comunque difficile: la parabola di Gerundio ci dice che forse abbiamo solo un passato e un presente senza futuro e La Sospensione taumaturgica ci lascia nell’incertezza. Da essa usciremo solo con la morte di Saldi di fine stagione: non è detto, tuttavia, che si tratti dell’estrema beffa. L’alchimia ha previsto tutto, anche la morte come rinnovamento e trasfigurazione: l’ultimo lavoro rappresenta Il Pavone, che simboleggiava per gli alchimisti la sequenza di colori che poteva testimoniare della correttezza o meno del procedimento seguito; se l’adepto sbaglia, insomma, non deve far altro che ricominciare da capo.
Allegoria di una fatica che non avrà mai termine, la sequenza dichiara l’impresa impossibile, ma necessaria, e lo scacco inevitabile, ma auspicabile, poiché si tratta del prezzo che deve pagare chiunque pratichi il lavoro artistico. E’ chiaro, peraltro, che ciascun pezzo ha una sua compiuta autonomia rispetto alla serie e che Fallini ha montato il suo mosaico a posteriori, dopo aver elaborato le singole tessere. Sarebbe troppo lungo dimostrarlo qui analiticamente, ma basta pensare alla Luxuria o all’Occam per rendersi conto di come vengano riprese lunghe tradizioni iconografiche e culturali che eccedono l’orizzonte intellettuale alchimistico, mentre per altro verso gli stessi lavori ispirati direttamente all’alchimia in realtà rinviano anche in altre direzioni (l’abbiamo visto per il Mercurio e per Quod libet; nel Soffiatore anche soltanto la “candela verde” del padre Ubu fa scattare tutta una rete di risonanze semantiche).
Insomma, analogamente a quei grandi miti che, migrando nel tempo e nello spazio, crescono su loro stessi e assimilano per contaminazione elementi estranei (come tradizioni e leggende locali, frammenti o intere sequenze di altri miti), così, nel lavoro di Fallini, l’alchimia è contemporaneamente un mito e una mitologia: costruzione mitica che contamina ciò di cui si nutre, ma che, proprio per questo, non può fare a meno di lasciarsi a sua volta contaminare dai miti stessi che pretende di ordinare, organizzare e assorbire. La trasmutazione degli elementi diventa allora trasmutazione testuale, cioè una sistematica contaminazione linguistica, iconografica e mitica che vale, al tempo stesso, come principio ermeneutico e come modo di produzione.
Mito - l’alchimia di Fallini è allegoresi - nei cui confronti vale appunto l’osservazione benjaminiana che l’allegoria nasce quando l’esperienza del tempo secolarizzato distrugge la possibilità stessa del simbolo teologico come perfetta e incorrotta unità di sensibile e sovrasensibile, cioè di un rinvio immediato e diretto da significante a significato. Così, i segni dell’alchimia possono riacquistare un significato solo rinviando ad altri segni che rinviano ad altri significati e possono riacquistare statuto di linguaggio solo utilizzando le macerie di altri linguaggi, divenuti enigmatici come i fantasmi dell’inconscio.
Fallini si dice interessato soprattutto alla dimensione semantica della ricerca, ma il rifiuto di un formalismo che si giustifica troppo spesso con un superficiale appello al cosiddetto primato del significante, non lo induce ad una celebrazione, che sarebbe altrettanto ingenua ed acritica, del significato. E, in effetti, i suoi lavori sono, per usare un’espressione gaddiana, dei logogrifi a soluzioni infinite, che ci disorientano non per la mancanza, ma per l’eccesso di senso: evidenti, seppur paradossali, per quel che riguarda il significato immediato (Occam = rasoio = barbiere), suggeriscono in seconda battuta, mediante l’azione disseminante di ineludibili corrispondenze analogiche, una raggiera polisemica incontrollabile (l’assillo del taglio, il rubinetto enorme che minaccia, le parole del titolo che citano una battuta dal primo capitolo dell’Ulysses: “Speaking to me. They wash and tub and scrub. Agenbite of inwit. Conscience. Yet here’s a spot. “). Cariche di senso, e perciò stesso enigmatiche (ulteriore ironia), le allegorie di Fallini ci invitano a smarrirci per gioco in un labirinto semantico che promette ad ogni svolta una plausibile, ma illusoria via d’uscita.
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VI - DEL TEATRO COME PAESAGGIO ALLEGORICO
VI - Del teatro come paesaggio allegoricoParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
M a c’è un ulteriore aspetto del lavoro di Fallini che testimonia, forse ancora più efficacemente, la sua struttura allegorica, un aspetto che si connette alle sue caratteristiche formali, a proposito delle quali ci si potrebbe chiedere se questi congegni sono sculture o pitture. La questione, che sarebbe ovviamente oziosa se dettata da un esigenza astrattamente classificatoria, diventa invece sensata se è un modo per interrogarsi sulla struttura linguistica del lavoro di Fallini. La risposta non è però facile: procedendo per esclusione, si può intanto dire che a Fallini non interessano i problemi della superficie.
Anche se è sempre privilegiata la frontalità e anche nei lavori costituiti essenzialmente da una tavola pirografata, la tendenza costante è di sovrapporre e contrapporre piani (applicando sul legno, per esempio, profili ritagliati, argilla, tessuti, pelli, pezzi di metallo): è sintomatico che persino gli oggetti che esteriormente assomigliano di più a un quadro si rivelano in realtà scatole, in cui la lastra trasparente (di plastica o di vetro), nonché essere invisibile, è messa in evidenza e in cui lo spazio tra essa ed il supporto del fondo è utilizzato per proiettare ombre, per introdurre elementi volumetrici, etc. A Fallini però non interessa nemmeno il volume in quanto tale, ma solo Io spazio tridimensionale, perché anche nel caso (che si è fatto sempre più frequente negli ultimi anni e come nella serie qui presentata) in cui il prodotto finale è davvero qualcosa di simile a una piccola scultura, gli elementi fondamentali restano sempre dei profili ritagliati nel cornpensato e pirografati. E non è soltanto perché tali profili sono, per così dire, dipinti, che il lavoro di Fallini si differenzia dall’abituale impiego del ritaglio piatto in scultura (come è praticato, per esempio, qui da noi, da Ceroli): è in gioco, infatti, anche una questione scalare.
Voglio dire che i congegni di Fallini sono piccoli: non in assoluto, naturalmente (ho parlato di scale, non di dimensioni fisiche), ma in relazione al modello. Gli uomini o le stelle, i coccodrilli o gli elefanti, le bare o le astronavi sono regolarmente miniaturizzati: in compenso tendono ad essere ingigantiti gli esseri piccoli (come gli insetti), anche se solo per portarli alle proporzioni generali.
Questo accentuato rispetto di una convenzione scalare rigida diventa ancora più significativo, se lo si mette in relazione con l’intervento di tutto un apparato di fili, tesi o mobili, di sportelli, di cerniere, di supporti d’argilla.
Naturalmente tutto questo non produce dei volumi reali, ma solo convenzionali, così com’è convenzionale la motilità della coda del coccodrillo o il rapporto scalare; in altri termini, la tridimensionalità reale (lo spazio effettivo che relaziona e contemporaneamente distingue i diversi elementi o il diritto ed il rovescio dei pannelli ritagliati) è il significante di una tridimensionalità fittizia: struttura comunicativa classica degli impianti scenici, nei quali la profondità reale del palco, lo spazio in cui vengono scaglionate le quinte dipinte , è utilizzata per produrre l’illusione di una profondità fittizia. Quelle di Fallini si rivelano allora come vere e proprie macchine scenografiche, qualcosa di molto simile a un teatrino infantile o, meglio ancora, a quelle illustrazioni tridimensionali dei libri per l’infanzia, fatte con figurine di cartone ritagliate che si sollevano dalla pagina quando si apre il volume a novanta gradi.
Che il teatro, paesaggio artificioso e convenzionale, labirinto illusionistico, sia il luogo privilegiato dell’allegoria, era del resto prevedibile. Ma ancora una volta, il fattore scalare ci deve mettere sull’avviso: questi teatrini, così come non producono un effetto d’environnement, non hanno niente a che fare con gli impianti scenografici abituali. Definendo uno spazio reale (vale a dire, isolandolo dal contesto), queste macchine designano infatti quel luogo mentale che è la scena dell’allegoria.
Il luogo scenico, in questo caso, non può piu essere uno spazio, fittizio fin che si vuole, ma comunque rappresentativo dello spazio reale; e non sono nemmeno in gioco evidentemente, le modalità (prospettiche o diversamente simboliche, più o meno illusionistiche) della rappresentazione spaziale: quando è l’allegoria che sale alla ribalta, lo scenario non può che essere uno spazio astratto e convenzionale, l’alterità dello spazio fattuale.Sicché, mentre nella convenzione teatrale lo spazio rappresentativo è la finzione che rinvia allo spazio reale, nei lavori di Fallini è lo spazio reale della scena ad essere una finzione che rinvia al paesaggio mentale dell’allegoria.
La scena stessa non è più allora una rappresentazione, ma un’allegoria dello spazio: e, in quanto produce tale spazio allegorico, diventaallegoria dell’allegoria, costituendo una struttura formale cui è affidata una funzione analoga a quella svolta, sul piano semantico, dall’alchimia. Definire con maggior precisione questo luogo mentale, alterità dello spazio reale, non è facile.Certo, vengono in mente le macchine sceniche barocche, in particolare gli apparati allegorici allestiti in occasione di funerali o di più fausti eventi celebrativi. Se poi si pensa che la stessa età che ha visto l’ultima grande fioritura dell’alchimia e il trionfo dell’allegorismo rinascimentale e barocco, è stata anche l’età in cui ha preso corpo il progetto di un teatro della memoria, un’ipotesi appare singolarmente suggestiva: il luogo di dove l’allegoresi proferisce il suo discorso è il teatro della temporalità, vale a dire uno spazio che inscena i percorsi della memoria.
Occorre però ribadire che il paragone proposto non vale più di una semplice analogia e che, in ogni caso, non si tratta qui di contrapporre al moderno o all’attualità un’altra presenza, il modello di un’altra classicità: della tradizione barocca, così come delle altre rievocate, qui approdario soltanto i brandelli dispersi e mediati con i quali una coscienza pietosa ed ironica compone ii piccolo teatro domestico del suo dialogo con il passato - oltre che con se stessa e con noi. Ma sarebbe anche inesatto dire che su tale teatro recita allora il soggetto, giacché il soggetto non è nient’altro che questa scena stessa: in realtà è l’occhio di Fallini che vi scruta da dietro il paravento dell’Incorreggibile Mercurio, l’occhio di qualcuno che vi spia, ma che, come tutti, intanto, esibisce senza pudore il feticcio fallico dei piedi nudi o quello femminile della scarpa, così da trasformare anche voi, da vittime quali vi credevate, in guardoni inverecondi.
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VII - FOTOGRAFARE IN PIROGRAFIA
VII - fotografare in pirografiaParma, Febbraio 1987 - Maggio 1988
R esta soltanto da sottolineare, per concludere, l’efficacia contagiosa di questi lavori, che si può agevolmente misurare sulla serie di foto scattate da Enzo Bruno. E’ facilmente comprensibile quanto sia difficile fotografare queste macchine tridimensionali, ma prive di sfumature luminose volumetriche; che privilegiano la frontalità, ma non offrono spazi prospettici; che per le loro piccole dimensioni, infine, chiedono di essere avvolte, e quasi maneggiate, dallo sguardo, piuttosto che semplicemente osservate da un solo punto di vista fisso. Bruno è riuscito nell impresa perche ha rinunciato a proporre una copia degli originali, per cercare invece una loro traduzione nel linguaggio fotografico.
Tutti conoscono il vecchio adagio “traduttore, traditore”, ma non tutti sanno, forse, che è molto più vero di quanto probabilmente non pensasse chi l’ha messo in circolazione, poiché il tradimento è l’unico modo di essere fedele che è concesso a un traduttore. Così le foto (di Bruno, secche, pulite e smaglianti come foto pubblicitarie, sono prima di tutto fedeli a se stesse. E proprio in ragione della fedeltà alla propria lingua, il fotografo non ha esitato a trasformare gli originali introducendo specchi e fondali colorati, proiettando fasci di luce, sovrapponendo addirittura campirure cromatiche: ma queste foto infedeli, sono poi tanto più fedeli di una copia fedele in quanto la logica della trasformazione promana dall’originale stesso.
Contagiata dal gioco proposto da Fallini, avviene insomma come se pure la fotografia, basata sulla scoperta della reazione chimica alla luce, riscoprisse, con le proprie origini, anche una vocazione aichemica a trasformare le immagini, e non semplicemente a riprodurle. Il risultato è una vera e felice traduzione che riesce ad essere del tutto autosufficiente in quanto si sa insufficiente, in quanto cioè non pretende di sostituirsi all’originale, ma solo di lasciarlo leggere in trasparenza, come la fonte d’ispirazione di un’opera nuova.
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