L'uso della lingua straniera e i caratteri che riecheggiano quelli dei cristalli liquidi non riescono a nobilitare quella vecchia carogna della solitudine, che è sempre la stessa, pur sotto forme diverse. In questo caso si tratta del volto di una statua greca, un disegno a chiaroscuro che porta le tracce dei forellini per lo spolvero (l’idea della solitudine destinata a replicarsi per quanti siamo noi?). Il volto, triste, prende una coloritura romantica dal fatto di essere inserito in una cornice ottagonale color rosa, in modo da richiamare l’icona domestica dell’ava che tutti noi abbiamo avuto (di nuovo la categoria del “passato prossimo”) e che abitava (l’icona) un salotto un po’ buio di cui abbiamo lontano ricordo. Il vetro del quadro è rotto e il centro da cui partono le linee di frattura coincide con la fronte della figura per cui il cerotto ha la doppia funzione di tenere assieme le schegge di vetro e di curare la presumibile ferita frontale: viene proprio il sospetto che la figura, per la disperazione, si sia animata ed abbia dato una testata nel vetro. Questa è la solitudine più profonda e insieme l’allegoria profonda della solitudine. Se però rileggiamo i dati dell’immagine ci accorgiamo che esistono alcuni indizi di una trasmutazione alchemica: il culmine toccato dalla nigredo di una disperazione assoluta è letteralmente aureolato dai segni di una rinascente albedo (la cornice rosa dalla forma ottagonale come la pianta dei battisteri).
Mario Mantelli |
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